Nella
realtà odierna, per ogni impresa, è
indispensabile avere del personale che
sia in possesso di adeguate capacità professionali. Tale esigenza deriva da
vari fattori, come ad esempio l'avanzamento del progresso
tecnologico o l'evoluzione della normativa fiscale o civilistica.
Da qui
dunque la necessità sia di formare il personale.
Ovviamente tutto questo ha un costo. Il problema che qui si
vuole analizzare è quello di definire se tali costi possono essere considerati
costi di esercizio e in quali casi devono o possono invece essere
capitalizzati.
Secondo la
prassi di diversi uffici tributari, per le spese relative all’aggiornamento
professionale dei dipendenti e dell’imprenditore si applicano le modalità di deduzione
previste per le “spese relative a più esercizi” (altrimenti dette “spese
pluriennali”) di cui al comma 3 dell’articolo 108 del Tuir, in base al quale
tali spese (diverse da quelle relative a studi e ricerche e dalle spese di
pubblicità, propaganda e di rappresentanza) sono deducibili “nel limite della
quota imputabile a ciascun esercizio”.
La norma, in altri termini, attribuisce una discrezionalità
tecnica all’azienda acquirente, il cui limite è rappresentato dallo stesso
programma di ammortamento predisposto dall’azienda interessata.
Il calcolo della quota annuale da portare in deduzione si
ottiene dividendo il costo del bene per il numero degli anni previsti in tale
programma.
La conseguenza di tale interpretazione è che per il Fisco le
spese in esame non sono riconducibili nel novero delle spese per studi e
ricerche di cui al comma 1 dello stesso articolo 108, per le quali è previsto un trattamento fiscale più
favorevole consistente nella possibilità di portare le spese stesse in
deduzione per l’intero importo nell’esercizio in cui sono sostenute, ovvero in
quote costanti nell’esercizio stesso e nei successivi ma non oltre il quarto.
La tesi della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 3871/2002 ha affermato che è facoltà dell’imprenditore scegliere se
dedurre il costo in un unico esercizio o se frazionarne la deduzione, fino ad
un massimo di quattro esercizi; in questo – continua la sentenza - non ha
importanza la distinzione tra costi diretti al miglioramento
dell’organizzazione aziendale e quelli miranti all’accrescimento della
professionalità delle persone che in essa collaborano.
La stessa Corte
di Cassazione, con la sentenza n. 5193/2000, nonché anche con quella n.
3413/2002, aveva in linea di massima già esposto il proprio orientamento,
affermando che le spese per l’aggiornamento professionale di cui trattasi
rientrano fra “le spese relative a studi” di cui all’articolo 108 Tuir e ne
seguono il relativo trattamento fiscale.
Secondo la Corte, infatti, le spese per l’aggiornamento
professionale dell’imprenditore e dei suoi dipendenti vanno comprese in detta
previsione, considerato che l’ampiezza letterale e logica del riferimento agli
“studi” non può non abbracciare tutti gli esborsi finalizzati al potenziamento
dell’impresa per il tramite di energie intellettuali, senza distinguere a
seconda che l’attività di studio riguardi il miglioramento dell’organizzazione
aziendale ovvero la competenza delle persone che in essa collaborano.
Il principio contabile N. 24
In disaccordo con la tesi dell’Amministrazione Finanziaria
anche l’impostazione data al problema dal principio contabile 24, il quale
ammette la capitalizzazione di tali costi solo se sono sostenuti da una impresa
di nuova costituzione, o da una impresa preesistente rispetto ad una nuova
successiva attività, ovverosia solo se si è in presenza dei cosiddetti “costi
di start-up”.
Tale Principio contabile riconduce nell’alveo dei costi di
addestramento e di qualificazione del personale tutti quelli sostenuti
dall’impresa per elevare il grado di professionalità dei propri dipendenti.
Tali costi sono definiti “di periodo” e, pertanto, devono essere iscritti nel
conto economico dell’esercizio in cui sono sostenuti.
Come conseguenza di quanto sopra, devono essere imputati a
conto economico:
Costi di ricerca;
Costi sostenuti prima della apertura di un nuovo
stabilimento, costi di start-up sostenuti prima che gli impianti producano a
regime (impianto e ampliamento, avviamento impianti);
Spese di costituzione (legali e notarili);
Costi di formazione e
addestramento personale;
Costi di pubblicità e oneri relativi;
Costi di ristrutturazione e costi sostenuti per la
riorganizzazione del business o di una linea di produzione.
I corsi di natura extraziendale
Affrontato
il lato relativo alla deduzione per l’impresa, resta da sottolineare che in
capo ai dipendenti la frequenza di corsi organizzati per meri fini aziendali
non produce reddito imponibile.
Piuttosto
diverso, invece, il discorso qualora si parli di costi che hanno natura
extraziendale: si pensi ad un corso di golf pagato dal datore i lavoro ai
propri dipendenti.
In tale
caso, tuttavia, non sempre si è in presenza di fringe benefit; in capo ai
dipendenti bisogna infatti distinguere a seconda che il corso pagato
dall’imprenditore sia diretto alla generalità dei dipendenti (o a singole
categorie di questi) o meno; solo nel primo caso, infatti, esso non genera
materia imponibile.
Per la
società invece la distinzione fatta per i dipendenti non ha rilevanza, nel
senso che essa potrà legittimamente dedurre i relativi costi solo per la parte
non eccedente il 5 per mille dell’ammontare delle spese per lavoro dipendente
risultante dalla dichiarazione dei redditi, in base a quanto previsto
dall’articolo 100 Tuir.
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